Paolo Ulian | ITA

Paolo Ulian
Paolo Ulian (Fabbrica del Vapore 2009, Milano durante la Design Week)

Intervista realizzata originariamente per Designed By.

Dopo aver ascoltato con estremo interesse l’intervento di Paolo Ulian, ospite del ciclo di conferenze dal titolo “Sensibile – Il design come creazione di senso” presso l’ISIA di Faenza (2007), abbiamo pensato di iniziare da questo grande designer il nostro ciclo di interviste. Dobbiamo ammettere di avere un debole particolare per i suoi lavori (…e chi non ce l’ha?) ma non abbiamo certo voluto farci influenzare.

Quest’intervista risale a settembre/ottobre 2008 e, nel frattempo, Paolo ha messo online il proprio sito web (finalmente!). Da un secondo incontro, in occasione della sua esposizione personale  presso la Fabbrica del Vapore durante la settimana del Design 2009 a Milano (“Paolo Ulian 1990-2009″ a cura di Beppe Finessi), ne è emerso che pare abbia particolarmente apprezzato le nostre domande e che abbia, addirittura, pubblicato una parte di questa intervista sul proprio sito (> “Faenza 09-2008″). Questo non può che farci molto onore, non potevamo chiedere di meglio per iniziare!

DB (La Crì): Storicamente il design italiano è nato come progettazione seriale di oggetti con un preciso scopo d’uso: prodotti pratici, pensati per soddisfare le necessità di un’Italia all’alba della propria industrializzazione. Pensi che la realtà del design contemporaneo sia ancora questa?

Paolo: Dagli anni cinquanta ad oggi il design ha subito diversi passaggi e mutazioni. Ad ogni nuova realtà sociale ed economica che si presentava ha sempre corrisposto un certo modo di esprimersi attraverso il progetto. Oggi la situazione non è diversa, la realtà in cui viviamo ci dà dei segnali forti e chiari, abbiamo preso coscienza che la crescita industriale non può essere infinita, ci sono dei limiti ambientali che non lo concedono. Ci siamo accorti delle falle e degli squilibri che caratterizzano l’attuale logica di mercato e questo provoca delle reazioni psicologiche in chi opera nel mondo del progetto. Basta guardarsi intorno per capire che oggi l’industria non è più l’unico obbiettivo per le giovani generazioni di designers. Nell’aria si comincia a respirare un urgenza di  allontanamento dalla cultura industriale per indirizzarsi anche in altri ambiti come le piccole produzioni artigianali che permettono una maggiore libertà espressiva e garantiscono risultati a più breve termine. E non credo che questo sia avvenuto solo per la necessità di ritagliarsi una maggiore autonomia di progetto, ma anche a causa di quel senso di responsabilità nei confronti dell’ambiente che si sta diffondendo in maniera sempre più determinante nelle coscienze di tutti.

DB (La Crì): Il design italiano è sempre stato una realtà ben definita e riconoscibile. Credi che oggi se ne possa ancora parlare in questi termini? E se sì, tu te ne senti parte?

Paolo: La realtà del design italiano è stata così come dite voi fino a una ventina di anni fa, prima dell’avvento di internet, oggi è ben diversa, il fenomeno del design ha raggiunto una tale diffusione a livello globale che sta portando progressivamente a un appiattimento delle varie peculiarità culturali. I linguaggi progettuali si fondono in un unico linguaggio standardizzato che ha trovato la sua definizione attraverso la rete, e per rendersene conto basta dare un’occhiata ai progetti presenti sui numerosi blog di design. I progetti dei designers inglesi piuttosto che giapponesi o italiani oggi non sono più distinguibili fra loro, per questo non ha più senso parlare di design italiano come particolarità, ma solo come una delle tante voci che cantano in un coro assai vasto.

DB (Alex): Citando Bruce Sterling, un capitolo del suo libro (“La forma del futuro”) si intitola “Produttori d’immondizia” e parla del fatto che l’uomo inquina da prima ancora di divenire umano poiché, per dar forma alle cose, si producono inevitabilmente scarti di materiale. Il capitolo prosegue così: “Tutto è soggetto al consumo dell’uomo, tranne l’inquinamento, l’uomo ha sempre fallito nel tentativo di gestire i rifiuti ed è per questo che, con gli anni, sono aumentati fino a diventare quasi l’unica eredità che lasceremo ai posteri.” In questo scenario umanamente inevitabile, come giustifica la sua professione il designer, progettista di oggetti – certo – ma non solo?

Paolo: Questa è la contraddizione più evidente del lavoro del designer industriale. I suoi progetti, in caso di un grande successo commerciale, si possono tradurre in un enorme spreco di risorse naturali, di energia, di forza lavoro e che inevitabilmente si trasformeranno in pochi mesi o, nel migliore dei casi, in qualche anno in una gigantesca quantità di immondizia. In questo senso la sua responsabilità è veramente grande. La questione però è anche questa: esistono dei rari, rarissimi casi in cui gli oggetti non sono solo materia inanimata ma anche dei portatori di significati profondi che ci possono indurre a riflessioni come può fare un’opera d’arte, un bel film o una canzone d’autore. Si tratta di capire qual è il giusto equilibrio tra l’importanza del messaggio che un oggetto porta con sé e la sua diffusione commerciale. Ci sono oggetti come i Sedici animali di Enzo Mari o la lampada Toio di Castiglioni o il più recente tavolo No-waste di Ron Arad che per i loro contenuti etici, e di altissima qualità progettuale ci insegnano quello che ci può insegnare il migliore trattato di filosofia. Una loro maggiore diffusione commerciale sarebbe solo un prezioso nutrimento culturale per i sensi di molte generazioni. Nel design industriale si dovrebbe seguire questo tipo di modello, denso di significati e di impegno etico/politico. Penso che questa professione sia giustificata solo a questa condizione, di tutto il resto potremo benissimo farne a meno.

DB (La Crì): Dove collochi il tuo lavoro e che posto occupano i tuoi progetti nell’attuale mercificazione del quotidiano?

Paolo: Non mi è facile rispondere, posso solo dire che ho sempre cercato di dare un senso alle cose che faccio nel tentativo di raccontare delle piccole storie, il design inteso come puro atto cosmetico per alimentare il sistema delle merci non mi è mai interessato. Fondamentalmente cerco sempre di fare quello che interessa a me, molto meno quello che interessa all’industria, poi a volte capita che le due cose si incontrino e allora può nascere un prodotto industriale. Ma ti ripeto, la produzione industriale io la intendo solo come strumento per divulgare le proprie visioni a più persone possibile e non come un’ obbiettivo fine a se stesso.

DB (La Crì): In origine il design era considerata un’arte applicata. A che punto pensi che sia arrivato, oggi, il rapporto tra artisti e designer, e – in qualità di progettista- qual è il tuo rapporto con l’arte?

Paolo: Penso che l’arte sia presente in ogni forma di attività umana dalla più banale a quella più ricercata ed esclusiva. L’arte non ha delimitazioni settoriali, c’è o non c’è in qualsiasi aspetto dell’espressività. Per questo sono convinto che non ci debbano essere distinzioni tra l’arte pura di oggi, che si esplicita spesso attraverso la creazione di oggetti, e il design, che a sua volta sempre più spesso si esprime con la creazione di concetti anche immateriali, cosa che fino a poco tempo fa era prerogativa esclusiva dell’arte . Le due discipline si fondono in un unico fenomeno con infinite sfaccettature e sfumature che dialogano sinergicamente tra loro in piena libertà. Io vivo l’arte e il design in questo senso. Solo per fare un esempio, qualche anno fa, per una mostra a tema pensai di realizzare dei fiammiferi svedesi con due teste infiammanti e la relativa scatola. Lo scorso mese ho scoperto che l’artista rumeno Micea Cantor aveva fatto la stessa cosa. Una sovrapposizione casuale della stessa idea in perfetta buona fede, una per mano di un designer e una per mano di un’artista.

DB (Alex): Si narra che Raymond Loewy, presuntuosamente auto-proclamatosi “padre del Design Industriale”, sia stato anche colui che ha introdotto un certo glamour attorno al design per renderlo accettabile e meglio vendibile. Non a caso l’eleganza, la raffinatezza e la scelta dei materiali – al pari dell’alta moda – distinguono tutt’ora il design delle grandi aziende. Nella logica de “una buona idea é una piccola parte di un buon progetto e metà di esso consiste nel saperlo vendere” dove vale veramente la pena concentrarsi maggiormente secondo te? Credi, inoltre, che sia piú facile per uno studio associati o per un freelance solitario sopravvivere nel mercato?

Paolo: Secondo me vale la pena concentrarsi sul valore comunicativo del progetto. Quando un oggetto ha qualcosa da dire per me è già fonte di soddisfazione. Poi per il resto sono pienamente d’accordo con l’assunto di Loewy, il marketing riesce a vendere tutto e a trasformare cose senza valore in valori irrinunciabili. Non penso che la figura del designer si debba preoccupare più di tanto degli aspetti commerciali a meno che non abbia scelto di essere lui stesso l’editore delle proprie creazioni, credo piuttosto che si debba concentrare sugli aspetti poetici e visionari, che possano scuotere la spregiudicatezza del mercato arricchendolo di esperienze culturali e di valori etici. Per quanto riguarda la seconda domanda sono convinto che sia più vantaggioso lavorare in gruppo per vari motivi, anche se io mi ostino ancora a lavorare da solo. Il primo motivo è la maggiore possibilità di interscambio di sensazioni, di idee, di suggerimenti fra i vari componenti del gruppo, cosa importantissima in questo lavoro perché è proprio dallo scambio che nascono le intuizioni e le idee migliori. Il secondo motivo è il vantaggio della suddivisione dei compiti, uno studio di design non necessita solo di designers ma anche di chi si occupa di aspetti puramente fiscali o di segreteria, di chi si occupa di ricerca o di questioni tecniche, di modellistica e via dicendo. Chi sceglie di lavorare in modo solitario si deve far carico di questi e mille altri problemi con la conseguenza di dedicare solo una minima parte del suo tempo alla creazione e al progetto in senso stretto.

DB (Alex): Il successo di Muji dipende dalle scelte del suo art-director, l’architetto e designer Kenya Hara. Il tema del Muji Award 2008 è stato “RE” e puntava sul riuso e il riciclo, un tema – ormai – all’ordine del giorno. Negli oggetti premiati ho notato una certa somiglianza con la tua poetica: progetti “freschi”, efficaci ma semplici…senza per forza essere minimal. Cosa ne pensi di Muji?

Paolo: Muji mi ha colpito dalla prima volta che sono entrato in un suo negozio alcuni anni fa a Parigi. Non sapevo ancora che il nome significava “Senza marca” ma lo si poteva intuire dai prodotti che erano esposti, dalla loro purezza ed essenzialità. Gli oggetti Muji non hanno la necessità di stupire e ammaliare il cliente con colori forti e con forme elaborate, comunicano la loro funzione con delicatezza, intelligenza e sincerità. Anche i progetti vincitori del concorso RE  hanno la stessa impronta, sono piccoli concetti ispirati al quotidiano raccontati con gentilezza.

DB (Alex): Come ultima domanda vorrei andare sul personale…cioè, vorrei parlarti di un mio problema! 😉 Conservo praticamente tutto quello che trovo e ho l’abitudine di accumularlo e archiviarlo in maniera maniacale: dai ritagli di giornale alla pubblicità, dal packaging dei prodotti di largo consumo ai tappi da vino in gomma. Tuttavia non mi considero un collezionista bensì un bibliotecario delle mie curiosità. Fai finta di essere il mio psicanalista: faccio bene? Sono malato? Cosa mi consigli?

Paolo: E’ un vizio che ho anch’io, mi è indispensabile circondarmi di oggetti che in qualche modo reputo interessanti come fa lo scrittore con gli appunti che estrapola dalle sue letture. E’ il pane che serve per nutrire le idee, non sappiamo perché oggi raccogliamo un oggetto o perché fermiamo un istante in una fotografia, però sentiamo che è portatore di qualcosa che ci potrebbe essere svelato il giorno dopo o tra un anno, come una folgorazione. Quindi non preoccuparti, la curiosità è una dote, ti consiglio di continuare a cercare con passione.

Non ci resta che ringraziare sentitamente Paolo per la sua grande disponibilità e simpatia, che lo confermano uno dei nostri “idoli” contemporanei sia per quanto riguarda il suo lavoro che per la sua umanità. Auguriamo a lui molto (più) successo e al mondo molti più…”Ulian”. 🙂

Leggi anche:

  • articolo su Paolo Ulian

Links:

  • Paolo Ulian official website (www.paoloulian.it 2009)
  • “Design davvero” Il sogno di Paolo Ulian (intervista su Maria Zanolli.com, 2009)
  • “A chiacchiera con…Paolo Ulian” (intervista su Officina Creativa di Riccardo Giraldi, 2007)
  • “L’amorosa invenzione del quotidiano: intervista a Paolo Ulian” (a cura di Umberto Rovelli su Ideamagazine.net, 2007?)

Lascia un Commento / Leave a message